Siamo stati in un paradiso bianco, ieri. Un posto selvatico, molto, sull'appennino, già di per sé selvatico. Una giornata con le ciaspole, a sprofondare, anche fino a quasi un metro, in soffici cristalli bianchi, nella tormenta di neve.
Per metà del giro nel bianco intonso, non una traccia, nulla, solo le forme arrotondate, le stalattiti di ghiaccio, i faggi ma soprattutto pini neri e pecci e abeti bianchi imbacuccati. Bianco e freddo: i guanti di
pile inumiditi dalle mani sudate di sforzo, si appiccicavano, per gelo, sui bastoncini in alluminio.
Gli unici.
Non una traccia di vita.
Solo noi, il battito del cuore, il fiato, il fiato della fatica che sentivamo ad ogni passo e il silenzio, il silenzio totale, completo.
Al ritorno, un paio di case, tetti sprofondati di curve bianche; spuntava un comignolo, che testimoniava, col capolino nero e il profumo di legno, il calore della vita, dentro, forse una coppia di vecchi contadini, ultimi fiati di eroiche retroguardie resistenti.
L'inverno, quando sfoggia la propria bellezza, mi destabilizza.
Anche stamane c'era un delirio di bellezza, da andare fuori di melone.
All'alba, tramonto lunare, cielo blu, alberi ricamati di neve, neve ghiaccio croccante sotto gli scarponi, le cime dei colli di fronte rosa per l'alba, poi sole.
Peccato infilarsi in un ufficio di una merdosa periferia.