venerdì 13 aprile 2007

La cosa che esce

In UnDiario ho eliminato il collegamento a questo. Ecco la cosa che esce dalla relazione, starà alle mie spalle.

Complicità abortita

Lettera ad una complicità abortita, forse neppure concepita, probabilmente rimasta in meandri cerebrali
E la prima volta che mi fermo al lavoro. Venerdì sera ore 18 e 14 e le ho fatto sapere che sarei tornato tardi.
Indeciso fino all'ultimo se rimanere per un fine settimana con lei o se andarmene (fuggire) per danze matte, dopo aver pensato che fino al 26/27 maggio di fatto non ci vedremo come amanti, ho deciso di rimanere con lei, sono andati quasi tutti qui. Potrei andare anche io, ora, mese XXII di UnaStoria, mentre scrivo, le ore le ho fatte, resa nulla, testa via, dentro è buio e tiepido tendente al freddo.

Ho la morte dentro, il rimpianto per l'incanto demolito dall'emorrragia di gioco, ridere, curiosità, malizia che non ci son più. La fine misera dell'apoteosi. Non posso incazzarmi col fato, il destino, coi cicli che evidenziano i propri limiti, suoi (ma non è importante) e i miei (quelli si sono macigni che schiacciano e tolgono il respiro). Puoi incazzarti col destino?
Allora rimane una cosa indegna, quell'essere malmostoso e rancoroso che macera.
La nostra scarsa frequentazione lascia il posto a pessime riflessioni, ipomorfosi dal silenzio che cresce il desiderio al malcontento che cresce. Tutta una storia mentale e non ho voglia affatto di reframing. Mi piace l'eccesso il tanto peggio tanto meglio.
Declinati gli inviti, il paio di contratti scambisti morti per disinteresse e per agonia di quell'embrione di complicità, abbiamo abortito anche quello, forse è stato il primo aborto, quello. Non è il momento ora di riversare l'inconsistenza di un duo di trombamici su persone con tempo prezioso. Abbiamo sempre rifiutato contatti con coppie di trombamanti, non saremo noi ad entrare nel ruolo.
Ora sarà il momento di parlare che siamo diventati trombamici, che non fa una piega la sua idea di andare a vivere a venti chilometri, che siamo liberi e solo il vivere difficile della libertà è l'unica strada percorribile. Meglio così, fa male ma è meglio così, perché sarebbe non plus ultra del peggio viver vicini ciascuno con astio e traffico di altre carni sotto il naso dell'altro.
Poi stasera mangeremo, forse faremo l'amore perché i nostri corpi si desiderano ancora e forniscono, ora a singhiozzi, quell'energia che colma l'incolmabile. Si, il malcontento svanisce, va dietro la schiena per qualche manciata di tempo, quando vediamo un sorriso e le braccia si stringono. Sono settimane che avviene di rado e sempre più raro sarà.
E quindi torneremo nei cieli, per un illudersi di ore avare.
Ecco lunedì i pensieri che torneremo a scambiarci: Buongiorno ciccia, buon pranzo orsone.
Questa inedia porta rivolte dentro e pensieri sadici. Tuo il problema di intolleranza all'apoteosi sparita, lo sai benissimo.
Uomo, tu sai che di passi vivi, è lungo il tempo che sei fermo.

Sento che questo angolo sta diventando il mio diario, il mio luogo.

una storia sbagliata

lunedì 9 aprile 2007

Sparizione



E' meglio stare lontani in questo rimuginare prognosi riservata di corpo esangue e biancastro, dove sono i colori e l'odore del sole e della vita?
E sai che sparendo fai male ad una donna, la offendi, la insulti, ti compiacci di questa tua sparizione che crea dolore. A te, a lei. Vuoi gocce salate.
Sabato prossimo? il tempo del cuore e della carne dopo le settimane? Scordati architetture scambiste, porti un cadavere all'incontro.
Ecco le emozioni, le emozioni forti che s'alzano in rogo.
Va giu',  paranze della domenica in albis. Va a danzare la madonna delle galline.
Poi maggio i tre fine di settimana col tuo piccolo.
Lo sai che sara' l'agonia.
Eutanasia bastarda del tuo giocattolo d'amore.

Mater misericordiae
ora pro nobis

domenica 8 aprile 2007

novantacinque

Il destino ha voluto la lontananza, sono i segni del cammino.
Trentun denti brillanti bianchi e sani, uno cariato. La lingua va là. In realtà è inutile raccontartela, uomo. Si ripetono i cicli. Roghi di cupo rancore scottano la carne che si stacca a pezzi, rimane l'anima nuda.

Ti eri innamorato di un'idea, tu, da solo, è solo opera tua la catasta, cattedrale sbilenca che scricchiola, che cede. In cima la avevi posta, era una una tua dea e forse lo sarebbe devintata dea e troia, via via più.
Dakini, solo nel tuo desiderio.
L'anima erano di donna e pure la carne e i desideri e il suo amore che ti porge nelle mani nei riccioli. Non dea troia.
E ora, sfrizzola la carne sui gradi arancioni delle cupe vampe.
E la metamorfosi si accartoccia.

Chiave nella toppa arruginita, la porticina del legno di rughe di stagioni di sole, ogni folata di vento, cozza sul muro scrostato e ritorna al cigolio.
I cicli della vita.
Fa male.

Perché l'hai vissuto il movimento nascente, quel pensare a Donna di cuore e bagascia. E sai che si spengono. Tornano donne e tu le desideravi dee.
Novantacinque su cento d'amore.
Ma il cinque che rimane, quello è sale sulla carne che brucia.
Cupe vampe.
Non so se detestare lei o odiarla. E poi la mancanza, l'indifferenza e tutte le peggiori emozioni che ribollono, ecco la sorpresa di fiele nell'uovo.
Novantacinque su cento ti strazierai quando avrai rotto il giocattolo della tua gioia.
Sì pensa ad un'eutanasia prima che diventi inglorioso, indegno.
Leggeri tornano i tuoi cicli come ruote di carro che spezzano ciottoli.