lunedì 8 gennaio 2018

Uno cielo e terra e acqua

Dai tetti in coppi di piccole dimore, muri di coccio sberciati dal tempo, sbucavano comignoli in mattoni, a volte con un tentativo di architettura con una certa grazia. Non erano case di signori ma, anche nella povertà, c'era un anelito alla bellezza, apparentemente inutile (la bellezza può essere inutile?) come quella dei comignoli in mattoni.
Ancora fumavano, alla base del camino c'era un focolare, una stufa e il calore delle fiamme, la loro musica porta piacere e conforto a corpi, anime, menti. Immagina una bella cucina economica e la cucina ancora odorosa di bolliti, di polenta, con un piccolo Lied olfattivo cantato da una buona salsa verde o da un risotto ai saltarei o alla zucca.
Eravamo scesi dall'argine maestro. Io ero incantato da questo ampio paradiso: spazio, spazio e ancora spazio col Grande Fiume ora pacifico con le tracce di piene cattive. Pioppi e salici, edera e canne, campi e vista che si amplia, terre grasse e canali umidi, verdi mille e grigi mille. Lo spazio ti espande l'anima e il silenzio è il suo canto. Gli infiniti toni di grigio con i quali a ponente e a oriente il Po si fondeva col cielo, la foschia quasi nebbia, rappresentano il paradosso ottico di un confine che sa di infinito. Ho sempre adorato le tracce residuali di ambienti padani, fluviali che resistono alla bruttezza con l'arroganza di presunta efficienza della contemporaneità.
Anche in quei luoghi vicino al fiume la vita si intrecciava con la morte, per miserie, per il travaglio di lavoro o parti, per la fragilità dell'esistenza.
L'argine maestro è alto una quindicina di metri almeno sul piano di campagna. Vedi tutto da lassù. Siamo scesi e infilati in una piccola chiesina, dedicata al patrono dei pellegrini. Una piccola chiesa del Seicento, con una sua grazia. Già la porta aperta, in quel deserto umano, stranisce. Nel silenzio c'era un signore che pregava. Osservavo una sorta di felicità sul suo volto quando iniziò, come... un fiume in piena, a raccontarci di restauri, campane, affreschi ritrovati. Qualcuno che visitava il tempio remoto a lui così caro... chissà cosa avrebbe pensato il pio anziano se gli avessi anche solo accennato ai nostri piaceri sodomitici della mattina, alla nostra lussuria portata al massimo. Già, questi corpi che portano al sacro così vituperati e insozzati da quella morale.
Poi? Via in bici, ancora. Siamo scesi dall'argine in "Esso". C'era uno stretto sentiero che fendeva un muraglia di rovi. Sulle rive c'era ancora la palta azzurrognola (delle infernali argille plioceniche dell'Appennino) dell'ultima alluvione emiliana. L'acqua grigiazzurrina sembrava immobile ma solo qualche metro più in là si osservava una certa velocità che suggeriva profondità oscure, gorghi e forza inquietanti.
Ho toccato l'acqua lì dove cielo e terra diventano uno, finito e infinito.

(_civa)

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