Lettera ad una complicità abortita, forse neppure concepita, probabilmente rimasta in meandri cerebrali
E la prima volta che mi fermo al lavoro. Venerdì sera ore 18 e 14 e le ho fatto sapere che sarei tornato tardi.
Indeciso fino all'ultimo se rimanere per un fine settimana con lei o se andarmene (fuggire) per danze matte, dopo aver pensato che fino al 26/27 maggio di fatto non ci vedremo come amanti, ho deciso di rimanere con lei, sono andati quasi tutti qui. Potrei andare anche io, ora, mese XXII di UnaStoria, mentre scrivo, le ore le ho fatte, resa nulla, testa via, dentro è buio e tiepido tendente al freddo.
Ho la morte dentro, il rimpianto per l'incanto demolito dall'emorrragia di gioco, ridere, curiosità, malizia che non ci son più. La fine misera dell'apoteosi. Non posso incazzarmi col fato, il destino, coi cicli che evidenziano i propri limiti, suoi (ma non è importante) e i miei (quelli si sono macigni che schiacciano e tolgono il respiro). Puoi incazzarti col destino?
Allora rimane una cosa indegna, quell'essere malmostoso e rancoroso che macera.
La nostra scarsa frequentazione lascia il posto a pessime riflessioni, ipomorfosi dal silenzio che cresce il desiderio al malcontento che cresce. Tutta una storia mentale e non ho voglia affatto di reframing. Mi piace l'eccesso il tanto peggio tanto meglio.
Declinati gli inviti, il paio di contratti scambisti morti per disinteresse e per agonia di quell'embrione di complicità, abbiamo abortito anche quello, forse è stato il primo aborto, quello. Non è il momento ora di riversare l'inconsistenza di un duo di trombamici su persone con tempo prezioso. Abbiamo sempre rifiutato contatti con coppie di trombamanti, non saremo noi ad entrare nel ruolo.
Ora sarà il momento di parlare che siamo diventati trombamici, che non fa una piega la sua idea di andare a vivere a venti chilometri, che siamo liberi e solo il vivere difficile della libertà è l'unica strada percorribile. Meglio così, fa male ma è meglio così, perché sarebbe non plus ultra del peggio viver vicini ciascuno con astio e traffico di altre carni sotto il naso dell'altro.
Poi stasera mangeremo, forse faremo l'amore perché i nostri corpi si desiderano ancora e forniscono, ora a singhiozzi, quell'energia che colma l'incolmabile. Si, il malcontento svanisce, va dietro la schiena per qualche manciata di tempo, quando vediamo un sorriso e le braccia si stringono. Sono settimane che avviene di rado e sempre più raro sarà.
E quindi torneremo nei cieli, per un illudersi di ore avare.
Ecco lunedì i pensieri che torneremo a scambiarci: Buongiorno ciccia, buon pranzo orsone.
Questa inedia porta rivolte dentro e pensieri sadici. Tuo il problema di intolleranza all'apoteosi sparita, lo sai benissimo.
Uomo, tu sai che di passi vivi, è lungo il tempo che sei fermo.
Sento che questo angolo sta diventando il mio diario, il mio luogo.
venerdì 13 aprile 2007
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Quanto dolore.
RispondiEliminaVorrei esservi più vicino
Baffus, credo che sia difficile starci vicini. Almeno ad UnUomoInCammino, che ora è insofferente quasi a tutto.
RispondiEliminaCon il destino ci si puo' incazzare... davvero, anche se non lo si vede.
RispondiEliminaCome quando sei da qualche parti e urli quasi sordo al vento.
Magari saranno pochi quelli che ascoltano ma qualcuno c'è.
C'è un'anima che ascolta, sempre e comunque.
Dolore, si'.
Fase inesorabile.
Peccato non esista un analgesico a questo.